Viaggio in Indonesia
Era da tempo che volevamo organizzare un viaggio in Indonesia, paese del Sud-est asiatico particolare e affascinante che, con le sue 17 mila isole, è considerato l’arcipelago più grande del mondo. Stretto tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, si estende nella sua punta più a sud quasi fino all’Oceania.
Con quasi 300 milioni di abitanti (che apparentemente vanno tutti in motorino… in due, in tre, in quattro), l’Indonesia è la nazione a maggioranza musulmana più popolosa del mondo. Giungla, risaie, spiagge paradisiache e un numero impressionante di vulcani attivi sono le principali caratteristiche del Paese, mentre alcuni nomi sono famosi ovunque, come le isole Komodo e soprattutto Bali, la culla del surf e del divertimento.Anche se molti visitano l’Indonesia semplicemente per una vacanza di mare, scegliendo Bali o qualche altra isola dove trascorrere una o due settimane senza spostarsi troppo, a noi sembrava poco appropriato arrivare fin qui, dall’altra parte del mondo, e non visitare anche le due maggiori attrazioni dell’isola più grande del Paese, Giava: il tempio di Borobudur, vicino a Yogyakarta, e i vulcani del Monte Bromo.
È un viaggio che richiede circa 18-20 giorni, con uno stopover all’andata e al ritorno a Kuala Lumpur e a Singapore, così da visitarle entrambe aggiungendole al resto dell’esperienza. Anche perché nessuna di queste due meravigliose metropoli va mai vista di proposito, bensì sempre di passaggio.
Ormai in tutto il Sud-est asiatico si viaggia in modalità digitale. Per l’Indonesia servono vari documenti (controllate sul web), tra cui il visto elettronico, la dichiarazione di buona salute, una dichiarazione doganale e, per Bali, anche una tassa turistica. Tutto si compila dal cellulare e si riceve un QR code da esibire.
Le tappe del nostro viaggio in Indonesia
Il punto di partenza per questo classico giro dell’Indonesia è la città di Yogyakarta, grande e poco interessante metropoli situata al centro dell’isola di Giava, nei pressi della quale si trova però il magnifico tempio di Borobudur, una delle maggiori attrazioni del Paese. Probabilmente per questo motivo l’aeroporto internazionale di Yogyakarta è ben collegato con mezzo mondo.
La nostra scaletta di viaggio prevedeva come tappe:
- stopover a Kuala Lumpur [leggi il nostro racconto di viaggio su Kuala Lumpur]
- Yogyakarta per i templi di Borobudur
- i vulcani del Monte Bromo
- l’isola di Komodo
- Bali
- stopover a Singapore al ritorno [leggi il nostro racconto di viaggio su Singapore]

Yogyakarta e Bromo
Per il giro di Giava, dal nostro arrivo all’aeroporto di Yogyakarta fino alla partenza per Komodo dall’aeroporto di Labuan Bajo, la città più vicina a Monte Bromo, ci siamo affidati a un’agenzia locale, scelta sul web in modo casuale, che ci ha fornito un autista per i tre giorni, i biglietti per Borobudur e gli altri templi, oltre al conducente della jeep a Bromo. Il fai-da-te, da queste parti, non sembra proprio fattibile.

La città di Yogyakarta è considerata la capitale culturale dell’isola di Giava, con un grande patrimonio storico e artistico. Questo, almeno, è ciò che si legge sul web. Il problema, per così dire, di vivere in Italia è che, se si dovessero applicare i nostri parametri di “patrimonio culturale”, nessun posto al mondo potrebbe apparire davvero interessante. Tantomeno Yogyakarta. A causa del traffico, dall’aeroporto ci vuole più di un’ora per raggiungere il centro.
La città è molto estesa, con edifici bassi, strade trafficate, smog ed è anche piuttosto brutta. O, meglio, è esattamente ciò che ci si aspetta da una città minore del Sud-est asiatico. Importante centro universitario e apparentemente sicura, non offre però nulla di particolarmente degno di nota. Nemmeno la strada principale, Malioboro, considerata il cuore pulsante della città, convince più di tanto: vi si alternano negozi di moda locale e altri che vendono cibo di strada, tra cui coloratissimi frullati e pietanze dall’aspetto poco invitante. Poi ci sono risciò malridotti in attesa di clienti e una quantità impressionante di street food, comprese donne sedute sui bordi dei marciapiedi con piccoli bracieri sui quali preparano spiedini di pollo. Anche i clienti si siedono per terra o sulle panchine lungo la strada per mangiare, osservando il fiume di motorini e auto bloccati nel traffico.
Inutile dire che, per ritrovare un po’ di normalità, è consigliabile scegliere un hotel a cinque stelle, pochi ma comunque a buon mercato. Il nostro, il Melià, costava 75 euro a notte colazione compresa. Il lato positivo è che il cibo indonesiano è davvero ottimo e costa pochissimo, persino nei ristoranti degli alberghi.

Mentre Yogyakarta non rappresenta un grande interesse in sé, tutt’altra storia sono i suoi templi. Primo fra tutti, Borobudur. Patrimonio dell’UNESCO, è il più importante complesso religioso buddista dell’Indonesia. Si trova a circa 40 km dalla città, percorribili — come sempre qui — in circa due ore. Una volta arrivati, però, si è pienamente ripagati della fatica.
Il tempio, risalente all’800 d.C., è magnifico: immerso nella giungla, con le verdi montagne vulcaniche sullo sfondo. È alto 35 metri e composto da dieci piani, ognuno dei quali rappresenta una delle fasi del percorso spirituale buddista verso la perfezione. Migliaia di bassorilievi (precisamente 2.672) raccontano storie e insegnamenti, mentre quasi 500 statue di Buddha sono incastonate nelle nicchie o nelle parti superiori della struttura.
Qualche secolo fa una potente eruzione vulcanica (evento piuttosto comune in Indonesia, insieme ai terremoti) coprì il tempio di ceneri e detriti. In quell’epoca la religione prevalente era l’induismo, e nessuno se ne preoccupò più di tanto. Col tempo la foresta ricoprì e nascose il complesso, fino a quando, nel 1800, l’allora governatore britannico Thomas Raffles sentì racconti su un tempio perduto nella giungla. Tentò di trovarlo, fallì, ma non si arrese e incaricò un esperto olandese che, con 200 uomini, dopo mesi di ricerche, individuò la posizione del tempio e lo riportò alla luce con un lavoro estenuante.
La parte più suggestiva del complesso è quella superiore, dove si trovano gli stupa: le caratteristiche campane a punta, simbolo dell’illuminazione e della saggezza dei maestri, che custodiscono sacre reliquie. All’interno di ciascuno stupa si trova una statua di Buddha.

Costruito con grandi blocchi di pietra lavica nera, il tempio accumula velocemente calore sotto il sole, creando una sorta di effetto forno, con pavimenti e pareti roventi. Durante la visita è quindi consigliabile portarsi qualche bottiglia d’acqua.
Terminata la visita, ci siamo fermati al piccolo Pawon Temple, altro luogo sacro importante e venerato dai buddisti, costruito in onore del re Indra e, secondo la leggenda, custode delle sue ceneri.
Sulla via del ritorno verso Yogyakarta ci si ferma anche al Mandut Temple, il terzo della zona, che si erge solitario su un prato accanto a un enorme albero di banyan. Se non si è appassionati di storia religiosa, forse è più interessante proprio l’albero, anche perché il tempio era interamente coperto da impalcature. Mandut risale anch’esso all’VIII secolo, come Borobudur e Pawon.

Infine, dall’altra parte di Yogyakarta, si trova lo spettacolare complesso di templi induisti di Prambanan, che ricorda molto quello di Angkor Wat in Cambogia, anche se quest’ultimo è di dimensioni maggiori. Tra i vari templi, il principale — alto 47 metri — è dedicato alla dea Shiva, mentre gli altri sono consacrati a Brahma, Vishnu e così via. Davvero splendido. Da non perdere.
Monte Bromo
Il giorno successivo ci siamo diretti verso la seconda metà dell’isola di Giava: Monte Bromo. Dista circa 400 km da Yogyakarta, percorribili in circa sei ore d’auto lungo una comoda e quasi deserta autostrada (cinque, se l’autista va spedito). Esiste anche un treno fino a Surabaya, ma abbiamo saputo di persone che, pur viaggiando in prima classe, sono scese dopo poco per proseguire in auto. E comunque, da Surabaya a Monte Bromo ci sono ancora due ore e mezza di strada percorribili solo su quattro ruote.
Lungo il tragitto la campagna è un susseguirsi di risaie, con sullo sfondo le sagome di numerosi vulcani. L’isola di Giava, infatti, vanta la più alta concentrazione di vulcani al mondo: oltre 120, di cui una quarantina attivi.
Il vulcano più famoso, importante e visitato dell’intera Indonesia è senza dubbio il Bromo. In realtà, ciò che si ammira non è solo lui, ma l’intera caldera del Parco Nazionale Bromo Tengger Semeru, formatasi migliaia di anni fa dopo la potente eruzione di un enorme vulcano, da cui nacquero poi alcuni crateri più piccoli: il Bromo (ancora attivo), l’adiacente cono perfetto del Batok e, un po’ più distante, l’imponente Semeru, anch’esso attivo, alto ben 3.676 metri. Il tutto è circondato da una vasta distesa di sabbia, delimitata dai ripidi pendii dei monti circostanti. Ai piedi del cratere di Bromo sorge anche un tempio induista, il Pura Luhur Poten Gunung Temple.

Il must per ogni viaggiatore è assistere all’alba sul Monte Bromo da uno dei due viewpoint della montagna di fronte, sopra il villaggio di Cemoro Lawang. Tutta l’offerta turistica ruota intorno a questa esperienza. Negli hotel ci si sveglia verso le tre del mattino per raggiungere i punti panoramici a bordo dei pittoreschi 4×4 che sembrano usciti da un’altra epoca. La terrazza più alta, King Kong Hill, non richiede camminate ma è molto affollata; la seconda, più tranquilla, richiede invece un tratto a piedi di circa un chilometro in salita, ripida ma fattibile.
Per godersi al meglio la visita ci sono alcune accortezze. La prima è il meteo: con le nuvole basse non si vede assolutamente nulla, e Bromo si trova a circa 2.300 metri di altitudine. La seconda riguarda l’abbigliamento: nonostante ci si trovi in zona subtropicale, all’alba fa un freddo pungente. Molti hotel noleggiano giacconi, e gli ambulanti vendono cappelli di lana e felpe, ma è meglio portarsi qualcosa da casa: piumino, sciarpa, maglione. Già verso le 10 si torna in maglietta. La terza accortezza riguarda l’alloggio: molti scelgono la città di Malang, dove ci sono hotel di lusso a prezzi stracciati, ma si trova a due ore da Bromo, il che significa partire a mezzanotte per essere in cima all’alba. Meglio dormire a Cemoro Lawang, paesino letteralmente affacciato sulla caldera: hotel spartani, pochi comfort, ma posizione perfetta.

Che dire di Bromo: semplicemente un luogo incredibile. E di vulcani ne abbiamo visti tanti, in diversi continenti. Il panorama che i viewpoint regalano all’alba sulla caldera di Tengger, con il cratere fumante del Bromo a sinistra, la sagoma perfetta del Batok al centro, i due crateri minori e, sullo sfondo, l’imponente Semeru, toglie davvero il fiato. Ripaga ampiamente la fatica di svegliarsi nel cuore della notte, tremare dal freddo per più di un’ora nell’oscurità, con le torce in testa, senza capire bene perché si debba andare così presto — ma ne vale assolutamente la pena.

Finito il rito dell’alba, si risale sulle jeep in direzione del cratere di Bromo. Le strade sono strette e tortuose, ma le distanze brevi. Giunti alla caldera si attraversa la sabbia fino al punto da cui si prosegue a piedi: dieci minuti di cammino e poi una scalinata di circa 200 gradini porta sul bordo del vulcano. Davvero un’esperienza emozionante. Sulla via del ritorno vale la pena fermarsi anche al tempio induista che si erge solitario nella grande spianata vulcanica.

In tarda mattinata si rientra in hotel per la colazione e il check-out, stanchi ma appagati. Ci attende l’autista dell’agenzia che, in circa due ore e mezza, ci porta all’aeroporto di Surabaya, da dove prendiamo il volo per Komodo (Labuan Bajo). Per chi è abituato a rilassarsi con una birra o un bicchiere di vino prima del volo, sappiate che in Indonesia è vietata la vendita di alcolici negli aeroporti.
Komodo
A Komodo si viene soprattutto per visitare l’omonimo Parco Nazionale, patrimonio dell’UNESCO e considerato una delle riserve marine protette più affascinanti del pianeta. Istituito per preservare il celebre varano gigante, noto come Drago di Komodo, il parco comprende tre isole principali — Komodo, Padar e Rinca — e molte altre più piccole, che formano questo splendido arcipelago sul versante occidentale della grande isola di Flores. Qui si trova anche la cittadina di Labuan Bajo, il cui piccolo ma ben collegato aeroporto è il punto d’accesso per chi visita Komodo.

Due giornate (tre notti) sono sufficienti, alloggiando a Labuan Bajo, per esplorare l’arcipelago — tranne se si è appassionati di immersioni, perché le meraviglie sottomarine non sono certo inferiori a quelle in superficie. Molti scelgono di partecipare a una mini crociera su tipiche imbarcazioni locali che solcano il mare tra le isole, offrendo un’esperienza unica. Noi non ci siamo fidati: temevamo mare mosso e brutto tempo, quindi abbiamo preferito soggiornare a terra.
Il miglior hotel di Labuan Bajo, situato nel pieno centro, è grande e molto bello — probabilmente l’edificio più riconoscibile di tutta l’isola — con uno splendido affaccio sulla baia, a due minuti a piedi dal punto d’imbarco per le escursioni e con accesso diretto alla via principale, piena di ristorantini, negozietti e uffici che organizzano gite in barca.

Come si sarà già intuito, per esplorare il Parco Nazionale di Komodo si può scegliere tra due opzioni: la crociera di più giorni o le escursioni giornaliere in barca veloce, che partono la mattina presto (di solito alle 7) dal porto di Labuan Bajo. Le barche più grandi e veloci sono più economiche, ma i tour sono collettivi. L’alternativa è un tour privato su barche più piccole (comode per quattro persone), perfette per chi desidera più tranquillità per godersi questi luoghi straordinari.
Il primo giorno, non potendo ancora imbarcarci, abbiamo noleggiato due motorini per esplorare i dintorni di Labuan Bajo, scoprendo che non c’era granché da vedere, tranne una sola spiaggia — la vicinissima Silviya Beach. Quando siamo arrivati, l’acqua era cristallina e meravigliosa. Abbiamo pranzato nel bel resort con un pontile sulla barriera corallina, in fondo alla scogliera. Dopo qualche ora, però, la marea si è abbassata e l’acqua ha cambiato completamente aspetto, diventando più torbida e meno tropicale.

Il secondo giorno, finalmente, si parte per l’arcipelago di Komodo. Sveglia alle 6, partenza alle 7. Durante la navigazione incrociamo decine di barche: un presagio del numero di turisti che avremmo incontrato durante la giornata. E infatti sono tanti, ovunque — ma va detto, molto ben gestiti dalle agenzie.

La prima tappa è l’isola di Padar, la più spettacolare. Sbarchiamo direttamente sulla banchina da cui parte una ripida scalinata che conduce alla cima del monte. Fa caldo, si suda, si fatica, ma il panorama ripaga ogni sforzo: dall’alto, le insenature e le spiagge sottostanti sembrano disegnate, bagnate da acque color smeraldo e incorniciate da picchi rocciosi di origine vulcanica. Uno spettacolo incredibile.

Dopo Padar riprendiamo la navigazione verso la famosissima Pink Beach. Già da lontano, mentre la barca rallenta, si scorge un mare incredibile. Appena scesi, i piedi affondano nella finissima sabbia color rosa, dovuta alle microparticelle rossastre mescolate al corallo bianco. Sembra di trovarsi in una cartolina tropicale. Per chi vuole, ci sono alcuni chiringuiti; altrimenti, basta un bagno e una passeggiata fino alla scogliera per sentirsi in paradiso.

Dopo circa un’ora di sosta risaliamo a bordo per raggiungere la terza tappa: l’isola di Komodo. Si attracca a un lungo pontile che conduce al villaggio. Una grande insegna “Welcome” con l’immagine di un varano dà il benvenuto ai visitatori — e proprio lì, sotto gli alberi, uno di loro era sdraiato, come a farci gli onori di casa.
La visita, tra foresta e spiaggia, si svolge accompagnati da un ranger per una quarantina di minuti. I ranger portano con sé una lunga stecca di legno biforcuta sulla punta e spiegano che, in caso di attacco, la usano per bloccare il varano per il collo o per gli occhi. Non proprio rassicurante, soprattutto se si considera che un Drago di Komodo può raggiungere i tre metri di lunghezza e correre fino a 20 km/h. L’unico modo per scappare, dicono, è correre a zig-zag per disorientarlo. La fauna locale comprende anche cervi, cerbiatti e grossi cinghiali neri.
Secondo il nostro ranger, a volte i visitatori restano delusi per non aver visto nemmeno un varano. Noi, in meno di un’ora, ne abbiamo avvistati quattro: uno piccolo, due che dormivano e un ultimo, enorme, vicino alla spiaggia. Forse il ranger esagera con le “statistiche” per far scena, ma poco importa: vederli dal vivo è un’esperienza unica.

Dopo un’altra mezz’ora di navigazione arriviamo in un luogo ancora diverso, e forse ancor più sorprendente: Taka Makassar. È un sottile lembo di sabbia bianchissima in mezzo al mare, circondato da acque talmente turchesi e trasparenti da sembrare irreali. Le barche gettano l’ancora vicino all’atollo, dove l’acqua è bassa, e ci si tuffa per fare snorkeling tra coralli, stelle marine, piccoli squaletti e pesci coloratissimi.

Ultima tappa: il Manta Point, sempre in mezzo al mare ma con acque più profonde, sopra la barriera corallina. Il fondale è ricoperto di coralli, anemoni e strane formazioni a forma di fungo. Come si può intuire dal nome, qui si avvistano spesso grandi mante. Purtroppo, durante la nostra visita non ce n’erano, ma ci siamo consolati con la vista di alcune tartarughe che nuotavano intorno a noi.

Komodo ci ha regalato emozioni autentiche: natura straordinaria, paesaggi indimenticabili. A posteriori, forse avremmo scelto la crociera — con l’incognita del meteo, certo — o ci saremmo concessi un giorno in più per tornare nei punti migliori per lo snorkeling, come Taka Makassar e Manta Point, magari aggiungendo anche qualche spiaggia deserta.

Bali
L’isola più famosa dell’Indonesia. Molti pensano addirittura che l’Indonesia sia solo Bali. Cosa sbagliatissima. Anche perché Bali è forse la parte più inflazionata, più turistica, più sopravvalutata e meno bella di questo grande e variegato paese. È sicuramente il luogo che decenni fa ha trainato un turismo occidentale in cerca di diversità culturale, spiritualità, libertà, prezzi bassissimi e quel tocco esotico che ha creato il mito di Bali. Un mito che, però, a nostro parere, oggi va fortemente ridimensionato.

Culla dei surfisti, del divertimento e della spensieratezza, continua ad attirare ragazzi – e non solo – da tutto il mondo. Tra onde gigantesche che si infrangono sulle coste frastagliate, tra cui la parte migliore è sicuramente il promontorio di Uluwatu, si susseguono locali, ristoranti, night club, discoteche, centri massaggi e studi di tatuaggi senza interruzione da Jimbaran a Canggu.
Dopo tutti i luoghi davvero belli che avevamo visitato in Indonesia, da Yogyakarta a Bromo e Komodo, qualche giorno a Bali era quasi d’obbligo, per pura curiosità, anche se tutti i post e i video visti sul web narravano di un luogo che sulla carta non poteva conquistarci. Ed infatti, in parte, è stato così.

Bali è dozzinale, sporca, con un traffico assurdo (abbiamo girato mezzo mondo ma una cosa simile non l’avevamo mai vista), iper-turistica e ormai invasa da cinesi e indiani, ma soprattutto è un posto che sembra un set permanente per scattare foto e girare reel per i social media. Ogni attrazione, dai meravigliosi templi di Ubud alle risaie e alle isole come Nusa Penida, è invasa da migliaia di persone che si mettono in coda – a volte persino con un numeretto, due ore di attesa e un minuto di tempo a disposizione – per scattare una foto scrivendo “un luogo mistico e magico che purifica l’anima”. Succede alle cascate nella foresta, alle risaie dove, sulle famose altalene, affittano persino l’abbigliamento giusto, e nei templi, dove si usa anche la tecnica di appoggiare uno smartphone su un altro per creare un finto effetto acqua. Tutto bello, però finto, artificiale, privo di quella magia che probabilmente anni fa fu la fortuna dell’isola.

Nella settimana da trascorrere a Bali avevamo optato per 3 notti nella parte centrale dell’isola, la zona di Ubud, che secondo molti è la più bella e ancora autentica, e 4 notti sulla costa, sul promontorio di Uluwatu. Molti blogger ormai suggeriscono percorsi alternativi nel nord dell’isola, non battuti dal turismo, oppure attrazioni alternative a quelle più note, ma non ci hanno convinti. Overturismo o no, dire di non visitare le bellissime terrazze di Tegalalang o i templi più famosi sostituendoli con mete meno battute è un po’ come suggerire di non vedere il Colosseo o la Tour Eiffel perché troppo affollati. Quindi, con un po’ di sacrificio, gli spot turistici restano quelli che meritano di più.

Prima di continuare occorre dedicare qualche parola alla viabilità di Bali, perché questa condiziona l’intera vacanza e ogni esperienza sull’isola. Avevamo prenotato un’auto che ci doveva accompagnare dall’aeroporto al nostro hotel di Ubud. Controllando su Google Maps avevamo già notato che i circa 30 km di distanza richiedevano quasi due ore di viaggio. Una volta saliti a bordo del van abbiamo capito il motivo. Uno dei maggiori problemi di Bali è il traffico. Abbiamo girato mezzo mondo, viviamo a Roma – una delle capitali più congestionate d’Europa – e quindi abbiamo un parametro di valutazione. La viabilità a Bali è qualcosa di incredibile. Per percorrere pochi chilometri ci vuole un’infinità. Tutti incolonnati ovunque, sia in auto che in scooter. Strade strettissime, piene di buche, che a tratti diventano percorribili in un solo senso per le due ruote. Muoversi è estenuante: serve pazienza, nervi saldi e rassegnazione. Persino durante i 4 giorni trascorsi nella zona costiera, dove avevamo noleggiato scooter (unica possibilità per sopravvivere al traffico e vedere qualcosa), spostarsi è stato un incubo. Smog, centinaia di motorini bloccati in entrambe le direzioni, auto che secondo noi non arrivano mai a destinazione perché in fila perenne. E questo ovunque, con alcuni punti divenuti persino celebri per gli intasamenti, come le strade di Canggu.

Tornando a Ubud, è la località più nota della parte centrale di Bali, nell’entroterra. Avvolta nella foresta tropicale, in una zona collinare dove si alternano migliaia di templi induisti, risaie e palme, Ubud conserva un fascino particolare nonostante il turismo. Nei giorni da trascorrere qui, esplorando le numerose attrazioni, la cosa più importante è scegliere il giusto alloggio. Nascosti qua e là ci sono veri capolavori che sembrano set cinematografici e, anche se si fanno pagare, vale la pena spendere un po’ di più. Strutture che riprendono lo stile balinese, costruite in bambù, con panoramiche piscine a sfioro sulla giungla o sulle risaie, terrazze per yoga e meditazione e centri massaggi.

Due giorni pieni sono sufficienti per visitare le principali attrazioni, tutte a poca distanza chilometrica ma con la solita infinità di tempo per arrivarci. Il giro classico tocca, in ordine sparso: il tempio di Tirta Empul, il più famoso per via della piscina in cui ci si può purificare sotto i getti d’acqua. Il tempio è bellissimo, mentre per il rito della purificazione si forma una lunga fila (di turisti) che fingono slanci di spiritualità mentre fidanzati e amici scattano decine di foto per poi postarle sui social.

Altri due templi suggestivi sono Goa Gajah, detta anche la Grotta dell’Elefante, e Gunung Kawi, con molte figure religiose scolpite nella roccia. I templi sono visitabili a pagamento, spesso solo in contanti. Sono immersi nella foresta, fa molto caldo e si suda parecchio per via dell’umidità stagnante. Da ricordare che l’abbigliamento deve essere consono, anche se ovunque vengono forniti i tradizionali sari (parei) sia alle donne che agli uomini.

Nel centro trafficatissimo di Ubud, pieno di ristorantini, negozi e mercatini, si trovano due dei templi più belli che abbiamo visto: Ubud Palace e il Water Palace, a due minuti a piedi l’uno dall’altro. Da non perdere. Anche perché sull’isola ci sono più di 10.000 templi, ma quelli di Ubud hanno un fascino particolare. Avevamo invece rinunciato alla sveglia alle 6 del mattino per visitare il tempio di Lempuyang, quello più fotografato di Bali, scoraggiati non solo dalla distanza ma anche dai racconti di chi c’è stato affrontando non solo il viaggio ma anche il sovraffollamento e i numeretti (con due ore di attesa) per la foto nella porta sacra.

Oltre ai templi di Ubud, altre attrazioni da non perdere sono le cascate di Kanto Lampo – dove c’è la solita fila di ragazzi che attendono il proprio turno per scattare qualche foto in posa da meditazione sotto la suggestiva cascata – la Monkey Forest e le terrazze di Tegalalang.
La Monkey Forest (la Foresta delle Scimmie) ci ha stupito positivamente. Un vero parco delimitato e ben organizzato, abitato da migliaia di scimmie che si possono ammirare passeggiando lungo il bel percorso in mezzo alla foresta, tra alberi secolari e corsi d’acqua. Le scimmie sono piuttosto tranquille se si rispettano le semplici regole (scritte ovunque) di non fissarle negli occhi e di non interagire troppo. Ci sono scimmie piccole e grandi, tutte molto curiose e inclini, in ogni caso, a rubare cibo dai sacchetti dei turisti o a tentare di sottrarre occhiali e telefonini. Quindi occorre tenerle sempre d’occhio e stare attenti. Comunque, un’esperienza molto bella.

Infine, ci sono le terrazze di Tegalalang, le più famose tra le risaie di Bali. Nonostante i numerosi visitatori, non si può dire che ci fosse la folla. Si paga il biglietto e si accede alle terrazze, con una vista davvero suggestiva sulla collina di fronte. Risaie, altissime palme… un colpo d’occhio che sembra un quadro. Il divertimento per i turisti amanti dei social non manca: grandi altalene sospese sulla vallata con tanto di servizio fotografico, cuori di bambù per selfie, ristoranti panoramici e, nelle vicinanze, anche Cretya, il day club con piscine e musica più famoso della zona.

Vale la pena fare anche una sosta a Penglipuran, il più famoso villaggio tradizionale dell’entroterra balinese, molto carino.

Tutto sommato Ubud ci è piaciuta. Il troppo turismo e l’urbanizzazione un po’ sregolata fanno perdere quel fascino da Mangia, Prega, Ama, però alla fine qualcosa di questi posti rimane sicuramente nel cuore.
Il quarto giorno affrontiamo le due ore di auto (per una cinquantina di chilometri) fino all’ultima metà del nostro viaggio in Indonesia: la Bali costiera, quella dei surfisti, dei locali e della vita notturna. È la parte sud dell’isola, che si divide in due zone collegate ma diverse e ben distinte, sia dal punto di vista geografico che esperienziale.

La prima (che abbiamo scelto noi) è il piccolo promontorio di Uluwatu. Situato sotto l’aeroporto, è sicuramente la zona più bella: ospita i migliori hotel e club e le spiagge più suggestive. Anche qui il traffico è incredibile e le percorrenze diventano un incubo, anche per pochi chilometri. Quindi noleggiare un motorino è indispensabile. L’alternativa, per chi non ha dimestichezza, è spostarsi con i driver (sempre in moto) di Grab e Gojek, onnipresenti e prenotabili via app.
La costa di Uluwatu è la più scenografica: rocciosa, a tratti a strapiombo sul mare, con una barriera corallina che alza onde imponenti fino alle spiagge. Si divide in una zona più tranquilla, amata dai surfisti – la costa ovest, dove si trovano le celebri Diamond Beach e Padang Padang Beach (quest’ultima sede di competizioni internazionali di surf) – il Tempio di Uluwatu e due famosissimi ed esclusivi beach club da cui ammirare tramonti spettacolari: il Rock Bar e l’El Kabron.
Poi c’è la parte sud, con complessi di ville di lusso affacciate sull’oceano e le spiagge più iconiche di Bali, tra cui Melasti Beach. Anche qui, per godersi una giornata di mare, conviene andare nei beach club con piscine, perché il mare è sempre agitato, le onde sono potentissime e spesso fare il bagno è vietato. Nemmeno i surfisti frequentano questa zona per la pericolosità delle acque e della barriera corallina. Paesaggi stupendi, ma niente bagno. Tra i beach club più noti ci sono il White Rock e il Savaya, il super club sospeso sul mare con un gigantesco cubo luminoso, dichiarato il numero 1 dell’intera Asia e tra i migliori 10 al mondo. Da vedere.

Un luogo dove andare a cena è la spiaggia di Jimbaran, dove si susseguono ristoranti con tavoli sulla sabbia: molto dozzinali, luminosi e con arredi di plastica, però caratteristici, economicissimi e anche buoni.

Una nota a sé – o meglio, un avvertimento – merita il tempio di Uluwatu. Sul web circolano centinaia di video delle aggressive scimmie di Bali che rubano occhiali, telefonini, macchine fotografiche e borse, a volte recuperate grazie ai guardiani che permutano la refurtiva con del cibo. Pensavamo che fossero solo episodi della Monkey Forest di Ubud, ma lì le scimmie erano tutto sommato tranquille. Al tempio di Uluwatu, invece, non era nemmeno segnalata la presenza di scimmie e solo dopo – salvando in extremis un cellulare dal tentativo di uno scimmione maschio e un paio di occhiali grazie alla “permuta” – abbiamo capito che il luogo più pericoloso è proprio quello. Attenzione.

La seconda zona di Bali “mare” è il tratto di costa sopra l’aeroporto, che comprende le cittadine di Kuta, Seminyak e Canggu. Anche se si tratta di località diverse, alla fine formano un unico conglomerato urbano di baracche, hotel, ristoranti e ogni tipo di attività commerciale lungo la spiaggia per chilometri verso nord. Qualche differenza c’è, ma quasi impercettibile. Kuta è la parte meno interessante, con hotel economici e poco appeal. Seminyak è considerata la più chic, con mega hotel di lusso sulla spiaggia, mentre nelle stradine interne si trovano club, ristoranti, night, centri massaggi, tatuaggi e negozi di articoli di lusso contraffatti. Canggu, poco oltre, è la parte cheap, frequentata da comitive di ragazzi giovanissimi che affittano ville o camere per girare tra i tantissimi locali, ballare e conoscere gente. Qui si trova anche il Finns, il club diurno e notturno che si pubblicizza come numero 1 al mondo. A differenza della costa rocciosa di Uluwatu, il tratto da Kuta a Canggu è una lunga spiaggia bassa, spesso inagibile per le grandi onde che ogni tanto travolgono il bagnasciuga a causa di improvvisi mini tsunami. Per chi ha pazienza nel traffico, dopo Canggu si trova il tempio di Tanah Lot, l’unico edificato su una roccia in mezzo al mare.

La maggiore attrazione vicino a Bali è l’isola di Nusa Penida, con il famoso promontorio e la spiaggia raggiungibile tramite una ripidissima e pericolosa scalinata. Dopo aver scoperto che per arrivarci bisogna svegliarsi all’alba, raggiungere il porto turistico lontano da ogni altra località, prendere uno speedboat (di quelli che spesso si ribaltano) e poi affrontare luoghi panoramici affollatissimi, abbiamo rinunciato. Magari, con più giorni, sole splendente e mare calmo, un tour privato l’avremmo fatto.

Tirando le somme, l’atmosfera che si respira a Bali è diversa dal resto dell’Indonesia. Molti se ne innamorano perdutamente, altri – come noi – restano un po’ perplessi: contenti di averla vista, ma senza capire fino in fondo perché piaccia così tanto. Le persone sono gentilissime e sorridenti, si può vivere spendendo pochissimo, ed è piena di locali e ristoranti.

Un’atmosfera che, a posteriori, in qualche modo rimane nel cuore. Nonostante il traffico, il caos e la discreta sporcizia. Il mare e le spiagge sono pressoché impraticabili per chi cerca il classico “stare al mare”, ossia prendere il sole sui lettini e fare il bagno. Inoltre, sono molto sporchi, come d’altronde anche l’entroterra. La salvezza? I beach club e i grandi alberghi affacciati sul mare. Per i surfisti, ovviamente, è tutta un’altra storia, anche se la potenza del mare e i reef a filo non sono da sottovalutare. Il traffico è il peggiore mai visto e spostarsi diventa una vera fatica, rovinando il piacere di raggiungere i posti belli che comunque non mancano. Forse la vera attrazione sono i ragazzi e le ragazze giovani, belli e spensierati, che vengono qui da tutto il mondo. Bisogna solo capire il perché. L’isola, poi, sembra un’unica enorme e caotica città che non finisce mai. La manciata di famosi beach club è davvero bella (e anche costosa), i templi e l’entroterra hanno un loro fascino, però intorno a Bali ci sono tante isole più tranquille, con spiagge fantastiche e mare stupendo. Quindi… atmosfera particolare che può piacere ma anche lasciare qualche brutto ricordo. Una destinazione sicuramente molto soggettiva.

Il viaggio in Indonesia è stato all’altezza delle nostre aspettative. Un viaggi avventuroso, movimentato e a tratti stancante in un paese enorme, sovrappopolato (tanto che in alcune zone esistono restrizioni sul numero di figli), non proprio pulito e igienico, però affascinante, con persone meravigliose e sorridenti e molti luoghi interessanti da visitare. La differenza religiosa si percepisce ed è il motivo per cui ci sono località molto frequentate dagli stranieri, come Bali, dove la popolazione è prevalentemente induista, meno Giava, musulmana moderata, mentre Sumatra – dicono – è ancora da prendere con molta attenzione.

Due settimane di avventure, tanti voli presi e la scoperta di luoghi meravigliosi che si vedono una volta nella vita, come il Monte Bromo e Komodo. Un viaggio in Indonesia lascia un ricordo prezioso da portare a casa. Perché il Sud-est asiatico è sempre accogliente, interessante e, anche se a tratti un po’ caotico, sa affascinare e conquistare.